19/7/2008: "Mennea: il ciclismo va fermato" (Corriere dello Sport)

Mennea: il ciclismo va fermato

Pietro Mennea, oggi avvocato, è stato campione olimpico e primatista mondiale dei 200 metri, uno dei più grandi atleti della nostra storia. Il Mennea attuale non si riconosce più in questo sport (e l'istituzione sportiva lo ignora). Il suo impegno contro il doping è dimostrato da una lunga serie di libri sull'argomento.
E' un attento osservatore dello sport, è informatissimo, e non è stato certo colto di sorpresa dalla positività di Riccardo Riccò. Le sue analisi sono sempre scomode, ruvide, ma vanno al centro del problema. Si batte perché lo sport recuperi i valori che ha perso, comincia a preoccuparsi seriamente della salute degli atleti di oggi.
Riccò, un caso di positività annunciato?
«Quella del ciclismo, purtroppo, è una storia vecchia. Non è sbagliato chiederne la sospensione. Un intervento del genere ci fu già nel 2001, ai tempi del famoso blitz al Giro d'Italia. Ero europarlamentare, e con alcuni colleghi scrivemmo alle varie autorità per chiedere appunto uno stop del ciclismo. Perché non c'è solo in gioco la credibilità dello sport, ma molto di più».
Cioè?
«Ormai è una questione di salute, di tutela della salute pubblica. Ci sono state tante disgrazie, non solo casi di positività. Mi è capitato di recente di leggere su un sito l'elenco di tutti i corridori trovati positivi da quando esiste l'antidoping ad oggi: impressionante, ci sono proprio tutti».
Non ci sono soluzioni possibili?
«La sospensione sarebbe utile, ma non si farà, perché gli interessi economici in gioco sono troppo alti. A chi conviene prendere una decisione del genere? Però è ora che nel ciclismo si salvino almeno le persone, perché si gioca sulla loro vita. Riccò è un ragazzo giovane, impensabile che abbia fatto tutto da solo. lo lo vedo piuttosto come la vittima di un sistema intero».
Il ciclismo è da solo in questa situazione?
«No, penso ad esempio al sollevamento pesi. Ma è drammatico che una disciplina così popolare, che raccoglie attorno a sé ancora tanta passione non riesca a uscire dal tunnel. C'è la convinzione, nel ciclismo, che senza doping non si possa neanche salire in bici».
E nella sua atletica?
«Le cose non vanno bene. Vedo fisici abnormi, certe muscolature che fanno paura. lo pesavo 68 chili quando ho cominciato, e non arrivavo a 70 quando ho smesso, quasi vent'anni dopo».
E' l'antidoping che non funziona?
«Non è così semplice. E' l'organizzazione che non va. Per esempio: al Tour ci sono tutti questi casi di positività, anche a sostanze di ultima generazione. Nelle altre corse, come al Giro, non è successo niente. C'è qualcuno crede che chi si dopa al Tour non lo faccia nelle altre occasioni, oppure ...».
Oppure?
«In Francia c'è qualcosa di diverso. Per esempio, chi gestisce l'antidoping. Al Giro ci pensava l'Uci, al Tour c'è l'agenzia francese, che è autonoma, e che lavora insieme alla Gendarmeria. Perché in Francia c'è una legge penale che funziona, che è stata attualizzata nel 2006 e che tiene conto delle recenti tendenze del doping. L'attività investigativa è svolta dalla polizia giudiziaria, e i risultati si vedono».
Le autorità sportive italiane hanno collaborato...
«Ci sono singole persone che danno il massimo, ma la buona volontà non basta. C'è bisogno di istituzioni extra-sportive, che siano pienamente autonome. La Wada, ad esempio, non riesce ad esserlo, perché l'ipoteca del Cio è troppo pesante».
Qual è la strada migliore da seguire?
«Quella di affidarsi ad una legge penale comunitaria, ad esempio. Perché il doping è anche e soprattutto un problema di salute pubblica. Esistono leggi buone qua e là: in Francia, Italia, Spagna, Austria, Danimarca ... ma c'è bisogno di piena collaborazione tra i singoli Stati».
Arrivano le Olimpiadi, ci sarà tolleranza zero...
«Non succederà niente di clamoroso, perché tutto sarà affidato solo alle autorità sportive. E' l'esempio del Tour che bisogna seguire».

Sergio Rizzo


Articolo pubblicato sul Corriere dello Sport del 19 luglio 2008

 



 
 
 
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