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Il doping uccide lo sport

“Il doping uccide lo sport”

La Freccia del Sud ha smesso di volare, ora punge. O, almeno, ci prova. Sapendo benissimo che non cambierà il mondo, ma continuando a comportarsi come ha sempre fatto nella sua carriera. Per chi avesse meno di trent’anni, e si fosse perso quei momenti che hanno scritto la storia dell’atletica nazionale, la Freccia del Sud è Pietro Mennea. L’uomo più veloce del mondo, che alle Universiadi di Città del Messico, nel 1979, siglò il primato dei 200 metri con 19 secondi e 72 decimi. Un record battuto solo 17 anni più tardi da Michael Johnson.

Ieri sera Mennea era a Padova per parlare di doping, in un incontro organizzato dalla Federazione Italiana di Atletica Leggera (Fidal) nella sala di via Valeri.

«Si può vincere anche senza doping», esordisce. Diffici le credergli. E lui spiega: «Chi fa sport con coscienza, continuerà sempre così. Se ai giovani non spieghi che ciò che conta, nello sport, è la fatica, loro non ci proveranno nemmeno, a vincere pulito». Già, provarci. Sempre, con metodo e costanza. «La carriera di uno sportivo si costruisce con lavoro, sacrificio, impegno e dedizione: nella fase clou della mia carriera, durata per cinque olimpiadi e una miriade di altre medaglie, mi allenavo cinque-sei ore al giorno per 350 giorni all’anno. Non andavo mai a fare il divo in televisione, perché la trasferta per raggiungere Milano mi avrebbe tolto tre giorni di preparazione. E la mia programmazione non prevedeva il presenzialismo». Il concetto è conoscere le proprie possibilità, scegliere un evento importante concentrando la preparazione per quella singola data.

«Coppa del mondo o campionati del mondo? Pochi giorni fra l’uno e l’altro. Scelsi i campionati, e si sollevaro no molte polemiche. Ma ciò che mi guidava allora, ed è il messaggio che cerco di trasmettere oggi, è: una medaglia in meno e più credibilità.
I campioni dopati del passato hanno già perso: oggi loro non ci sono più, sono stati battuti. O hanno grossi problemi di salute. O li hanno i loro figli. Questa è la vittoria dello sport pulito, lavorare 11 anni per migliorare il record del mondo di 11 centesimi. Venti centimetri».

Città del Messico, indimenticabile. Ma quando gli chiedi se esistano ancora gli allenatori che studino la metodologia di preparazione, ammette: «Purtroppo sono pochi e messi in secondo piano dagli alchimisti del doping, medici che della deontologia se ne infischiano. E il problema è anche un altro: pure se vinci i mondiali di calcio, alla fine c’è chi mette in dubbio il merito della vittoria. E’ spettacolo, non più sport. La superficialità, tuttavia, non porta da nessuna parte».

E il ciclismo? Ivan Basso che ammette, poi ritratta, poi torna indietro? «Anni fa, quando ci fu il blitz al Giro d’Italia, sedevo sui banchi dell’Europarlamento. Inviai una lettera al commissario chiedendo di sospendere questa disciplina. Non è umano percorrere 200 chilometri al giorno a quelle velocità, senza rispettare i giorni di riposo. Purtroppo ci sono troppi interessi economici».

Soluzioni? « Il doping non si potrà mai sconfiggere, ma possiamo infliggergli duri colpi per circoscriverlo. A livello europeo, serve una norma penale che lo riconosca come reato: a Torino 2006, i quattro sciatori di fondo austriaci sono stati squalificati a vita perché in Italia c’è una legge penale che punisce il doping. Dovrebbe essere così per tutti».

Una carriera longeva come la sua oggi è (quasi) inimmaginabile. Così come lo è pensare che un atleta, a fine corsa, collezioni quattro lauree: «Studiavo di nascosto anche quando mi allenavo. Lo sport mi ha insegnato anche questo. E’ una questione di responsabilità, e avevo capito che l’agonismo non sarebbe durato per sempre».

Cristina Chinello

Articolo tratto da Il Mattino di Padova del 01.06.2007

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