Mennea: carriere a rischio
Pietro Mennea osserva lo sport mondiale e i suoi protagonisti e lo fa con la sua esperienza, quella di una carriera lunghissima e sempre al vertice prima e di uomo politico adesso. Mennea, il vero padrone dei 200 metri, è in prima fila nella lotta al doping e predica uno sport, ad ogni livello, più pulito.
Intorno al mondo dello sport c’è sempre il sospetto del ricorso all’illecito, ossia al doping.
«Quello del doping è un problema non solo sportivo ma anche civile. Ed è un problema proprio come la criminalità organizzata: è difficile da debellare».
La lotta al doping sembra una battaglia impossibile.
«Dobbiamo augurarci che la lotta all’illecito sia sempre più pressante. Purtroppo, adesso quando si realizza un record si parla sempre di credibilità. Purtroppo, il doping ci sarà sempre. Puoi infliggergli dei colpi, ma non lo potrai mai battere del tutto».
I controlli sono sofisticati a suo parere?
«Non si capisce perché esiste già un metodo per individuare il Gh, Ossia l’ormone della crescita, attraverso l’urina e non lo si fa partire dai Giochi di Pechino, forse, esiste qualche timore».
Durante la sua lunga carriera ha mai avuto qualche sospetto nei confronti dei suoi avversari?
«Quando non vedevo qualcuno per troppo tempo oppure riappariva con masse muscolari enormi. Con il solo allenamento, pur intenso, non è possibile».
Segnali inequivocabili, quindi.
«Io credo in uno sport dove conta solo l’allenamento. Ho corso i 200 metri in 19.72 nel 1979 e da allora sono ancora il primatista europeo. In quasi trenta anni solo sei atleti hanno fatto meglio di me. Questo vuol dire che si può fare lo sport pulito e ottenere grandi prestazioni e che il doping, in definitiva, non fa miracoli».
Molti atleti lanciano accuse nei confronti di colleghi.
«Guardiamo piuttosto le carriere di tutti, la longevità e le prestazioni. Quelli sono i segnali di uno sport valido».
Lo sport americano ha mostrato molte pecche: Marion Jones, Antonio Pettigrew, ma non solo sono stati privati delle loro medaglie.
«Un dirigente statunitense qualche tempo fa mi ha detto che ai Giochi di Atlanta del ’96 nove atleti del suo Paese erano dopati, ma i loro nomi non sono mai emersi. Noi, io e altri come me, non apparteniamo a quello sport. E l’ho dimostrato, si può vincere anche senza ricorrere a scorciatoie».
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 1° luglio 2008