«Ma era un mito per gli altri, non per se stesso. Una persona come gli altri. Quando nel 1979 il fece il record del mondo a Città del Messico nella sua agendina annotò quel giorno senza trionfalismi. Era semplicemente felice per aver raggiunto un traguardo»: Manuela Oliveri, la donna che Mennea conobbe e sposò negli anni ‘90, è la custode instacabile che dipana il filo di ricordi incancellabili. Guida la Fondazione che ne porta il nome e oggi sarà allo Stadio dei Marmi di Roma per il decennale della morte. L’appuntamento è alle 10.01: come il tempo sui 100 metri rimasto record italiano per oltre 30 anni: ci sarà il ministro dello Sport, Andrea Abodi, insieme ai vertici del Coni e a molti amici. Nelle stesse ore, a Barletta, verrà scoperta una targa sulla “Salita del Vaglio” dove il mingherlino Pietro correva da ragazzino con la maglietta bianca dell’Avis.
Dieci anni dopo quel tragico 21 marzo e tutti ancora a chiedersi il segreto della sua popolarità. Olivieri riavvolge il nastro e cerca la risposta: «Nonostante i suoi 180 centimetri non aveva il fisico di Borzov e degli atleti neri, ma Pietro è stata la dimostrazione che si poteva vincere mettendoci tenacia, fatica e spirito di sacrificio e allenandosi anche a Natale. Se c’era riuscito lui, tutti potevano realizzare il proprio sogno. Per questo la gente, ancora oggi, si riconosce in lui. Per questo nelle scuole è indicato come esempio».
I ragazzi di ieri ne conoscevano a memoria le imprese, quelli di oggi lo ritrovano nei video Youtube. «Con i giovani ci andava a parlare volentieri – dice la moglie – e lo avrebbe continuato a fare senza sottrarsi alle domande. Sono così fragili e sottoposti a tante sollecitazioni i ragazzi di oggi che ci sarebbe tanto bisogno di esempi. Delle storie di chi ha lottato per un obiettivo».
“Partiti, buon avvio di Mennea, ma Wells è più sveglio”, diceva Rosi nella telecronaca del 1980. Visto dal Sud, il resto del mondo era sempre un po’ più avanti ma non per questo bisognava rassegnarsi. Anzi. Olivieri lo dice senza mezzi termini: «Per Pietro le origini del Sud sono sempre state un valore aggiunto. Era la vita da prendere con la rincorsa rispetto a chi stava al Nord. Ma era questo che gli dava l’adrenalina necessaria».
Facile a dirsi in tempi in cui si allarga il divario con il Nord e si allunga l’ombra dell’Autonomia differenziata. Qualche pista d’atletica in più è arrivata (anche vandalizzate, purtroppo), ma il gap non è stato colmato. Chissà cosa avrebbe pensato Mennea. «Pietro avrebbe detto – aggiunge la moglie – che l’Italia è una sola con la sua bellezza e con il suo patrimonio anche se ci sono ancora tante cose da aggiustare. Il problema sono le risorse sfruttate male, le differenze possono solo arricchire e non dividere. Pietro avrebbe detto che questa storia delle autonomie delle Regioni è una forzatura di cui fare volentieri a meno».
Lui, la politica, l’aveva praticata in trincea: l’esperienza in Parlamento europeo, ma non eletto alle Politiche. Tirato in ballo per aver cambiato casacca passando dal centrosinistra al centrodestra. «I partiti gli interessavano relativamente perché gli premeva fare le cose – ricorda la moglie – e alle carte si dedicava dalla mattina alla sera tanto che comprò anche casa a Bruxelles. Scrupoloso al punto che, davanti alle tentazioni delle lobby, non si fidava di nessuno e preferiva scriversi da solo le relazioni. Aveva le capacità professionali per farlo e se la cavava bene».
“Mennea e Wells lottano spalla a spalla, ma il britannico accelera davanti”.
Cosa c’entrassero delibere e libri con quei 200 metri al cardiopalma se lo sono sempre chiesto tutti. Eppure studiava dalla mattina alla sera se c’era da farlo. Ahivoglia se lo faceva. Compresa una laurea presa durante il periodo caldissimo delle grandi finali, tra un Europeo e un Mondiale. «Fu Aldo Moro a consigliarlo», ma in pochi ci credono.
«E, invece, andò proprio così – svela Olivieri – Pietro si allenava allo Stadio dei Marmi e lì vicino c’era la Farnesina dove Moro era ministro degli Esteri. Moro chiese di incontrare Pietro e così andò. Quando lui, ragioniere con diploma, gli disse che gli sarebbe piaciuto fare l’Università, Moro gli consigliò Scienze politiche dove lui insegnava. Pietro lo prese come un segno. E, uno per uno, fece tutti gli esami. Si poneva un obiettivo e quello contava. Anche la laurea era un traguardo da raggiungere di corsa».
Per la verità, di lauree ne prese altre tre: Scienze motorie, Giurisprudenza che poi utilizzò per la nuova professione di avvocato, e Lettere. «Quando me lo disse aveva passato la cinquantina – racconta la moglie -gli diedi del pazzo. Gli piaceva la Storia e voleva fare Lettere. Gli consigliai di leggere dei libri, ma niente, voleva la quarta laurea. Me le ricordo ancora certe serate a ripassare i libri di Storia dell’Arte».
Amato dal popolo dello sport e per questo pronto a sfidare i vertici se c’era da protestare contro un’ingiustizia. Perfino contro la Fidal se c’era da schierarsi dalla parte degli atleti. È il Mennea sconosciuto alle grandi platee, aggiunge la donna che gli è stata sempre accanto. «Ma non pensate che fosse per cocciutagine o testardaggine. Lo faceva per gli altri, non per sè. Difendeva i colleghi e utilizzava, diciamo così, il suo potere di velocista. Era il tempo in cui gli atleti erano l’ultima ruota del carro e Pietro ne rivendicava i diritti. Lo diceva in modo diretto, senza filtri».
Era stato abituato a fare sempre così, quando a Barletta non aveva neanche le scarpe per correre: un pezzo del suo cuore è sempre rimasto lì, tra lungomare e piazza del Castello. «Non lo sapevo che il Comune – dice la moglie – ha deciso di inserirlo nel brand di comunità accanto agli eroi della storia medievale: Barletta città della Disfida e di Mennea, mi dicono che si chiamerà così. Una buona idea se serve a promuoverne le bellezze e a stimolare le nuove generazioni. A lui sarebbe piaciuto».
Nato per correre, il pensiero corre ancora lì. “Mennea si distende e cerca di recuperare su Wells”. Con le persone che incontrava faceva un gioco e chiedeva: «Ma tu dov’eri nel preciso momento in cui correvo i 200 metri a Mosca?”. Se lo ricordavano tutti, nessuno che lo avesse dimenticato. La sua terza Olimpiade sembra un film per come era riuscito a ribaltarla: due giorni prima era finita malissimo, eliminato dalla semifinale dei 100 e i giornali già titolavano di «un velocista finito» a soli 28 anni. Erano state le 48 ore più importanti della sua vita: o la medaglia d’oro o la più grande delle delusioni. «Pietro mi diceva sempre – racconta la moglie – che aver trasformato la più dolorosa delle sconfitta nella vittoria più attesa era stato bellissimo. Ci era riuscito trovando tutta la forza in se stesso».
Epica la voce del telecronista, oggi come ieri. “Mennea recupera, recupera, recupera e ha vinto. Il ragazzo del Sud è medaglia d’oro e possiamo sentire da qui l’esplosione di gioia che arriva da lì, da Barletta”. Il riscatto tutto in pochi metri: voglia di crederci fino in fondo, spinta sul filo di lana, occhi spiritati, braccia levate al cielo. Il Sud e i ragazzi, il binomio che diventa tutt’uno. «Oggi direbbe – conclude la moglie e l’emozione gonfia il cuore – che dalle sconfitte e dalle difficoltà nascono le motivazioni per ripartire. Ai meridionali direbbe di stringere i denti per restare uniti e ai ragazzi direbbe di non demoralizzarsi mai. Per lui la parola “impossibile” non esisteva, per lui senza sogni non c’era vita». Forse, la sua vera lezione. Perché con Mennea tutti, almeno un po’, abbiamo imparato a correre.