Un record come scuola di vita:
il nuovo libro di Pietro Mennea
“Eravamo dei reietti, quarant’anni dopo siamo diventati eroi”. Per Tommie Smith il tempo sembra essersi fermato. E’ alto, massiccio ed imponente come ai tempi del suo favoloso record: 19″83 sui 200 ai Giochi di Messico 1968. Le sue gambe, leve di impressionante lunghezza, tradiscono ancora l’agilità e il tono di quando dominava la scena mondiale e non solo per motivi agonistici. Ha lo stesso sguardo duro di quando sul podio olimpico alzò al cielo il pugno guantato di nero, assieme al compagno e collega John Carlos in difesa dei neri discriminati di tutto il mondo. Fu un pugno storico che ha segnato, per i due, anni di vicissitudini anche non felici e di battaglie.
Così come il record di Mennea (19″72) in quelle ormai lontane Universiadi di Messico 1979 è diventato il simbolo di uno sport che avrebbe potuto cambiare e che ora – amaramente – semplicemente non esiste più. Oltre che il titolo dell’ultima fatica letteraria dell’ex campione pugliese.
Campioni e uomini contro: Tommie Smith, Lee Evans e Pietro Mennea. Assieme per presentare il libro edito dalla Fondazione Pietro Mennea Onlus (204 pagine, 20 euro, vedere sito www.pietromenneastore.com – sezione “libri Pietro Mennea”). Una vita contro. Per questo tanto fisicamente disuguali eppure tanto simili. Gli uni per la parità dei diritti umani, l’altro per uno sport che avrebbe potuto e dovuto diventare scuola di vita e che, invece, si è trasformato in terreno di caccia per dirigenti rampanti, senza scrupoli e per il business più sfrenato. Uno sport dove la logica del rispetto dell’uomo e dell’atleta prevalesse su quella della legge dei “furbetti” e del carrierismo dei dirigenti.
“Quel record del mondo non ci sarebbe stato – racconta Mennea – perché alla vigilia della partenza per le Universiadi la Federazione italiana di atletica e il suo presidente Nebiolo volevano farmi partecipare alla Coppa del Mondo di Montreal. La mia presenza serviva per le assecondare le sue mire elettorali. Gli atleti vengono spesso usati per questo. Ma questo avrebbe fatto saltare tutti i programmi di preparazione sportiva. E nello sport gli obiettivi importanti non possono essere tanti e in fila l’uno con l’altro. Bisogna scegliere ed io avevo scelto il Messico”.
Quel gesto Mennea lo pagherà caro per tutta la sua carriera, costellata di difficoltà, di incomprensioni, di cattiva stampa (spesso asservita alla dirigenza sportiva), perfino di squalifiche. Il sistema, oggi è chiaro, non ammette teste “pensanti” e capacità critiche. Messo lì, vicino a Tommie Smith, splendido sessantaquattrenne, alla presentazione del libro, stenti a capire come il piccolo Davide barlettano possa aver spodestato il Golia texano dal trono della velocità.
Accadde quasi trent’anni fa, in un afoso pomeriggio di settembre del 1979. Quel 19″72, tuttora primato europeo e italiano, è durato diciassette anni, fino all’avvento del fenomeno Michael Johnson (19″32 nel 1996 alle Olimpiadi di Atlanta) ed è oggi il titolo dell’ultimo libro di Pietro Mennea.
“Il record di un altro tempo”, recita il frontespizio. Ed è il simbolo di come tecnicamente in “altri tempi”, quando lo sport non era ancora del tutto l’assoluto regno del business, del profitto e degli approfittatori, fosse possibile costruire attorno alle qualità e alla incredibile disponibilità al sacrificio e alla dura vita di certosino di un atleta con tutte le motivazioni di uno che veniva dal profondo sud, risultati, record e perfino una scuola.
“Avevamo capito l’importanza dell’allenamento organizzato – spiega Mennea – della periodizzazione, della costruzione teorica verificata quotidianamente sul campo”. Mennea parla sempre al plurale, alludendo a Carlo Vittori, il tecnico che in quegli anni lo allenava. Tecnico cui è grato, anche se le loro strade ad un certo punto si sono divise. Dietro a quel record undici anni di lavoro certosino, 3.950 giorni di allenamento (“compresa Pasqua, Natale e tutte le feste”), ottomila ore di lavoro, almeno 5 al giorno, oltre alle gare: 528 di cui 419 individuali e 109 staffette. Un messaggio chiaro e forte: “Lo sport insegna che per la vittoria non basta il talento ci vuole il lavoro e il sacrificio quotidiano. Nello sport come nella vita”.
Un messaggio che i giovani di oggi quasi ignorano nei suoi significati più profondi. In quegli anni nacque una vera e propria “scuola italiana” dello sprint. E qui, di fronte al grande exploit dell’uomo di Barletta (12 record nell’arco di quell’epica settimana alle Universiadi) si innesta l’immagine di un misero fallimento. Quello di una società che non sa riconoscere il proprio patrimonio. Che non sa seminare e sfruttare l’esperienza e per questo è già vecchia senza essere mai stata giovane. Mennea fa un lungo elenco di ex atleti che avrebbero potuto essere capitale importante per lo sport e che fanno altro nella vita. “Preatoni è in pensione; Vincenzo Guerini è ex dirigente di banca in pensione; Luigi Benedetti è insegnante di educazione fisica; Luciano Caravani è pensionato; Gianfranco Lazzer è agente di Polizia stradale, Giovanni Grazioli e professore di educazione fisica; Stefano Tilli è titolare di uno studio fisioterapico e allena atleti stranieri; Pier Francesco Pavoni è imprenditore nel settore delle macchine medicali; Roberto Tozzi è dirigente della Banca d’Italia”.
Per non parlare dello stesso Mennea, quadrilaureato (oltre ad una lunga esperienza politica in Europa), oggi avvocato e dottore commercialista specializzato nello studio del diritto con particolare attenzione ai risvolti sportivi. “Se lo sport ha respinto tutte queste persone qualcuno dovrà pure chiedersi perché. Se c’è qualcosa che non funziona…”. osserva amaro. E la famosa scuola atletica di Formia che aveva spodestato il regno americano dallo sprint? Tommie Smith sorride: “Per me Mennea rappresenta la Nemesi. Ma anche noi ci allenavamo duramente”. Una scuola finita nel nulla: “Oggi non c’è più niente, tant’è che dai miei tempi nella velocità non c’è più stato un finalista alle Olimpiadi”. Le responsabilità? Tante e quasi tutte di certa dirigenza sportiva ottusa e ignorante, tesa solo all’occupazione della poltrona; alla gestione del potere per il potere. Dirigenti discussi e discutibili. E spesso corruttibili.
Anche questo c’è nel libro di Mennea. Una storia che parte da lontano. Mennea racconta del primo incontro con Horst Dassler il patron dell’Adidas, autentico “Tycoon” dello sport mondiale all’epoca, in grado, secondo lui, di far nominare dirigenti del Cio e persino di fare assegnare la prestigiosa sede dei Giochi: “Me lo presentò Nebiolo. Mi disse che se avessi bisogno avrei potuto rivolgermi a lui. Ingenuamente gli chiesi due paia di scarpe chiodate per gareggiare…”.
Quanta acqua (e quanti soldi) da allora sono passati sotto i ponti.
Articolo pubblicato sul sito www.sportpro.com, rivista telematica diretta da Eugenio Capodacqua, il 9-6-2008.
FOTO GALLERY
Presentazione libro “19″72 – Il Record di un altro tempo“
di Pietro Paolo Mennea
Roma, 9 giugno 2008
Sala della conferenza-stampa
Tommie Smith e Pietro Mennea (1)
Tommie Smith e Pietro Mennea (2)
Lee Evans e Pietro Mennea
Gianni Minà
Ferdinando Imposimato