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Io, il nero bianco d’Italia

Io, il nero bianco d’Italia

È quello che ha portato il Belpaese a sorpassare il mondo. L’indice sollevato verso il cielo, dopo ogni vittoria – e sono state tante – ha rappresentato per una generazione di sportivi l’icona del successo. Quando la Freccia del Sud scattava dai blocchi trasudava rabbia, il viso contratto, quasi sofferente, i muscoli delle gambe pulsanti, l’andatura esplosiva. Pietro Mennea, il nero bianco d’Italia, trent’anni dopo il record dei record, quel 19”72 sui 200 metri stabilito a Città del Messico, durato per 17 anni, non è cambiato. Il coraggio della sfida fa parte del suo dna. Ed è rimasto intatto. Si è conclusa la missione sportiva. Ha dimostrato a tutti che senza il doping si può arrivare primi lo stesso al traguardo. Niente scorciatoie. Lavoro, lavoro e lavoro, la ricetta del successo: «Sono salito sul podio sempre e solo con le mie gambe».
Oggi il suo indice è puntato verso i falsi profeti, gli incantatori pronti a vendere la propria anima al diavolo, in cambio di soldi e successo, calpestando la salute e le regole etico-morali. Atleti-oggetto: «Io gli stadi li riempivo lo stesso. Non mi sono mai fatto condizionare dalle leggi del business. Purtroppo il doping è diventata una piaga sociale. I giovani sono informati poco e male ed anche in ambiente scolastico il fenomeno è poco studiato e approfondito».
Cinque Olimpiadi nel carniere, tre volte sul podio, ma la medaglia più importante è quella della credibilità: «Prendete Marion Jones, l’ultimo simbolo dello sport americano, innalzata al rango di regina immortale. La fiaba si è conclusa in maniera triste e imbarazzante: ha confessato di aver fatto ricorso al doping, le hanno tolto medaglie e primati. Di lei, cosa rimarrà? Nulla. La ricorderanno più per la truffa messa a segno che per i risultati conseguiti. Il doping ti
toglie molto di più di quanto ti ha dato».
È possibile vincere sempre? Si può resistere alle lusinghe del dio danaro? Dello spettacolo? Del successo?
Pietro da Barletta lo ha dimostrato: «Ci sono i margini per trovare un giusto equilibrio. Non è vero che se non ti aiuti, non vinci. Lavoriamo invece sulle metodologie di allenamento. Io sono stato in pista cinque ore al giorno per vent ’anni. Può sembrare assurdo ma non mi sono mai strappato. Eppure i miei muscoli erano lì, in bella vista, sotto gli occhi del mondo».
Mennea, predestinato?
«Assolutamente no. La prima volta che mi vide Carlo Vittori (il mitico allenatore ndr) mi scartò. Disse: “Sei troppo magro, devi mangiare qualche bistecca”. Io sono tornato a Barletta e mi sono allenato ancora di più. Lui insisteva. Io non mollavo. Nello sport come nella vita si costruisce tutto con l’impegno, la costanza, i sacrifici».
Allora, campioni non si nasce, si diventa?
«La settimana del 19”72 ho stabilito 12 record tra italiani, europei e mondiali. Mai seguito una dieta particolare: a tavola, pasta col pomodoro, una spruzzata di parmigiano, la famosa bistecca e frutta. Sono arrivato comunque lontano. Perchè programmavo gli impegni, impostavo la preparazione in funzione del grande evento».
La smorfia del viso quando correva: era rabbia o dolore?
«Un giorno mi portarono davanti al grande Cassius Clay. Il pugile era ancora in attività. Mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi guardò e spalancò gli occhi: “Ma sei bianco”. Gli risposi: “Sono nero dentro, più nero di te”. Se hai fame nella vita, se hai voglia di arrivare, puoi raggiungere qualcosa di importante».
Oggi, quanti interessi ci sono dietro un grande campione?
«Tanti, troppi. Nello sport è importante vincere, altrimenti non sei nessuno. Ma lo sport non è tutto. Vincere ogni giorno è molto più difficile. La vera sfida è questa».
Sta scrivendo un libro sul record di Città del Mssico?
«L’ho intitolato “Il record di un altro tempo”, uscirà a giorni. È stato il primato, nella storia dello sport mondiale, col maggior numero di tentativi effettuati per superarlo. Quando lo stabilii mi dissero che sarebbe durato non più di un mese. Per batterlo hanno addirittura spianato una montagna, al Sestriere, costruendo una pista di atletica leggera: lo spettacolo prima di tutto. Invece, niente. Ero irraggiungibil. Pur di cancellare quel tempo misero in palio una Ferrari. Un anno ci provò Michael Johnson al Sestriere. Mi chiamarono. Agli organizzatori piaceva l’idea del cambio del testimone. Rilanciai: se lo sprinter americano batte il record gli consegno la mitica auto rossa, in caso contrario la Ferrari la prendo io. Risposero no, grazie. Naturalmente Johnson non stabilii nessun primato».
Ha mai pensato di allenare?
«Ci ho provato. Per me era difficile. Non avevo diritto di chiedere agli altri la stessa mia dedizione: la superficialità non porta da nessuna parte”.
Quando un campione smette, non serve più?
«Se uno come me, oggi, non si dedica a quello per cui si è applicato, è una sconfitta del sistema, non mia».
Ha sempre avuto rispetto degli avversari?
«Sempre. Penso a Valerj Borzov. Veniva presentato come un prodotto da laboratorio. Se fosse stato così i sovietici, dopo di lui, ne avrebbero sfornati tanti altri. Invece, non è successo. Il vero problema era il doping di Stato della DDR. Certo, all’epoca era difficile coltivare amicizie. Ai Giochi di Monaco 1972 la Stasi aveva infilato nella squadra della Germania dell’Est 66 agenti segreti per studiare i sistemi di sicurezza del villaggio olimpico. Poi, conosciamotutti come è andata a finire».

Gaetano Campione

Articolo tratto da La Gazzetta del Mezzogiorno del 6-2-2008

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