Lo scorso gennaio (2024), Il Sole 24 Ore ha pubblicato questo interessante articolo sulla figura di Pietro Mennea, tratteggiandone la figura secondo una prospettiva umana e sportiva. Di seguito alcuni estratti:
Non è mai stato facile avvicinarsi a Pietro Paolo Mennea, l’uomo più veloce del mondo sui 200 metri dal 1979 al 1996. Non è mai stato facile perché Pietro viveva come correva e correva come viveva. Sempre lanciato, sempre con un avversario da battere, con un traguardo da afferrare. Dentro aveva un fuoco, un fuoco sempre acceso. Che ustionava chi si avvicinava. E che lo rendeva quasi un alieno, abrasivo, inafferrabile anche a se stesso.
Anche quando ha lasciato la pista, dopo 530 gare e 17 anni di agonismo, non si è fermato. Ha ripreso a correre più di prima per recuperare il tempo perduto. Un’attività forsennata. Quattro lauree, 23 libri, un intenso impegno da avvocato e da europarlamentare. Ogni tanto si fermava per partecipare a un dibattito, a qualche conferenza dove si divertiva a spiegare che lui, l’uomo più veloce del mondo, non era un superdotato come Usain Bolt o Tommie Smith. No, lui era un ragazzo di Barletta, bassino e poco muscoloso, venuto su con la pasta al forno di mamma Vincenza. «Se ho fatto quello che ho fatto – diceva Mennea, lo devo solo a una cosa: che ho lavorato come un pazzo. Anche sei ore al giorno. Mi allenavo sempre, anche di nascosto. Perfino il mio allenatore, Carlo Vittori, spietato come me, ogni tanto mi diceva che potevamo andare, che avevamo finito. Ma io niente, andavo avanti, perché non ho mai avuto paura della fatica…».
La dedizione e la disciplina al lavoro vengono esaltate come qualità inscindibili e perennemente presenti.
Pietro fa razza a sé. Sempre con Carlo Vittori, il suo allenatore. Una coppia di sadici flagellatori con il cronometro in mano. «Abbiamo passato mesi a Formia e non c’è stato una sera in cui sia uscito con noi a mangiare una pizza», dirà Sara Simeoni, medaglia d‘oro nel salto a Mosca. Anche Livio Berruti, figura leggendaria, oro nei 200 metri alle Olimpiadi di Roma ’60, era perplesso: «Per Pietro l’atletica era un duro lavoro. Non ho mai visto nessuno come lui. Io volevo divertirmi, eravamo Platone ed Aristotele…».
Eccolo Pietro: un italiano poco italiano. Un figlio del sud inflessibile come un generale tedesco. Pietro è tante cose assieme: ombroso, rabbioso, antipatico, spigoloso. «Lo sport è come la vita», dirà poi lui dopo aver ottenuto il record del mondo sui 200 metri a Città del Messico e l’oro a Mosca sempre sui 200. «Se vuoi ottenere i risultati ti devi allenare. Metterci il cuore, la passione, la volontà. Senza questi elementi, non si va da nessuna parte. Allenandomi non mi sono mai infortunato. Mai una lesione grave. Un giorno Steve Williams venne a Formia per guardare il mio programma di allenamento. Mi sembra perfetto da diluire in una settimana, mi disse. Io lo faccio in un giorno, risposi».
Infine, vengono citati i due grandi record conseguiti prima a Città del Messico e poi a Mosca, i quali sono tuttora impressi nella memoria dei più — appassionati e non –. Proprio sull’avventura in Russia viene detto:
Ecco perché a Mosca non può fallire. È la resa dei conti. Solo che deve partire dall’ottava corsia. Un sorteggio maledetto, perché è la corsia più esterna, la più complicata. Poi ha contro un avversario duro, collaudato, l’ingegnere scozzese Allan Wells, già oro nei 100 metri. Lo scozzese è tranquillo, solido, annusa la doppietta, senza aver nulla da perdere. Mennea invece è un fascio di nervi. E scatta male. Esce dalla curva scomposto, sbatacchiato dall’onda dei rivali, ultimo con Wells già in fuga. Ma qui avviene il miracolo: in preda a un furore che chissà da dove nasce , Pietro li sorpassa tutti, uno dietro l’altro. Una rincorsa incredibile che lo porta oltre ogni limite. Lo scozzese sbalordito s’impianta e Mennea vince alzando un dito al cielo. Il suo modo di esprime la gioia. Questo Mennea, che trionfa sulla pista di Mosca, è la sintesi della sua vita. Dove vince anche sbagliando, da imperfetto contro i perfetti. Tutto quel grumo sciolto, quella felicità leggera che spazza via sacrifici e pesanti rinunce. Una gioia esplosiva che è anche la fine di un incubo.